Ovvero il privilegio sbattuto in prima pagina
L’articolo scritto da Roberto Longoni e pubblicato il 22 febbraio sulla Gazzetta di Parma con il titolo: Difesa, testimoniano due psichiatri: “ragazza fragile”, è a dir poco vergognoso. Vergognoso perché dimostra, ancora una volta, quanto il potere mediatico di un rampollo della “Parma bene” sia tale da poter cancellare in un istante il diritto alla privacy e alla dignità della ragazza vittima di violenza. C’è una tale sproporzione di forza in questa storia che, inevitabilmente, quella violenza agita prima fisicamente diventa poi una violenza psicologica che si perpetra nell’aula di tribunale.Da una parte l’imprenditore, ricco, bianco, famoso, attorno al quale si è schierata la Parma del privilegio, quella di chi crede che pagando tutto sia lecito, tutto sia possibile. Quella di chi ancora pensa di poter guardare il mondo dall’alto al basso come faceva il Marchese del Grillo quando, dopo essersi divertito, sprezzante lasciava il popolino sbeffeggiandolo con la sua frase: “Perché io son io e voi non siete un cazzo”.
Dall’altra uno spacciatore nigeriano che la stessa Parma ha già condannato e dimenticato. Il pusher che è stato archiviato tra i tanti, troppi, extracomunitari che stanno qui solo per delinquere e che invece andrebbero rispediti a casa e per i quali, in nome della difesa della donna, si grida a gran voce all’evirazione.
E poi c’è lei, la vittima che ha rischiato di essere annientata in quella notte di luglio di due anni fa e che ieri è stata definitivamente fatta a pezzi sulla stampa locale. Distrutta in ogni sua parte, colpita e penetrata dai pregiudizi e dai giudizi facili, prevedibili e scontati dei benpensanti. Giudicata per ogni violenza subita, per ogni scelta fatta, per ogni passo compiuto, per il suo passato e il suo presente. Nell’articolo emerge un quadro di fragilità tale per cui vengono messe in dubbio le sue parole, la sua personalità, la sua capacità di intendere e di volere. Vengono sminuite le violenze subite precedentemente, anche quelle che hanno portato alla condanna dello stesso stupratore.
Stuprata ancora e ancora e poi sbattuta in prima pagina. Lasciata lì, nuda, indifesa, con le sue ferite aperte e senza nessuno scudo dietro il quale coprirsi. Non è accettabile che oltre allo stupratore, oltre alle dinamiche nell’aula di tribunale anche la stampa locale sia complice in questo gioco al massacro, discriminante e violento.
Non doveva pubblicare queste testimonianze, non così. Dietro a questo racconto morboso, che scava in ogni minimo dettaglio, scandagliando sulla vita, sugli abusi subiti, sulla sua “forte ipersessualità”, sul suo uso di droghe e sul suo apparire “a un non psichiatra semplicemente come una disponibile”, c’è una scelta editoriale che risulta inaccettabile.
Non c’è solo la volontà di dare la notizia, ma c’è la scelta di raccontare il processo adottando lo schema studiato e pensato dalla difesa di Pesci. C’è un racconto che non tiene mai in considerazione la dignità della ragazza, ridotta unicamente alla sua ipersessualità, e un uso delle parole che sono già una sentenza. Perché il giornalista ha scelto di assumere un punto di vista maschilista, violento e stereotipato e di dargli valore.
È violenza questa articolo. Violenza di un’indagine che fruga senza alcun rispetto nei particolari di una vita che porta con sé tanto, troppo dolore, troppa sofferenza. Violenza nella scelta di non tutelare minimamente la ragazza che, fin da subito, aveva chiesto di non essere data in pasto alla stampa.
E poi c’è, ancora, la stessa violenza che ritroviamo nei processi per stupro. Quella violenza che è l’atavica convinzione maschile di poter possedere il corpo femminile sempre, a qualsiasi condizione. La violenza di chi pensa che pagando può brutalizzare e annientare il corpo della donna che ha acquistato.
La violenza di un procedere legale che è feroce, perché punta alla totale distruzione di ciò che resta della vittima, ribaltando completamente la realtà. La vita della ragazza viene trafugata in ogni sua parte, per arrivare ad insinuare il dubbio che sia lei la colpevole della sua violenza, lei quella “facile”, lei quella che “se l’è cercata”. Ma quarantacinque giorni di prognosi non si cercano, non si vogliono. Quelli ti si scaraventano addosso e ti paralizzano. Quelli non li scegli.
Le attenuanti che la difesa sta cercando in questo racconto che è stupro, sono per noi le aggravanti di un procedere mediatico e legale che è frutto di un sessismo che pare inestirpabile e che noi non siamo più disposte a tollerare in alcun modo. C’è in questa storia tutto il privilegio che il patriarcato ha perpetrato e continua a mettere in atto nella totale libertà di demolire le donne a suo piacimento, prima in un lussuoso attico, poi nelle aule del tribunale e successivamente sulle pagine di un giornale che ha scelto di essere complice di tutto ciò.