Ho imparato a fare il caffè all’età di 10 anni. Me lo insegnò mia nonna dicendomi che era una qualità necessaria affinché potessi trovare marito.
All’età di 14 anni non avevo ancora avuto nessuna esperienza amorosa. Non sapevo cosa fosse il sesso. I miei genitori non reputavano necessario formarmi o informarmi, ma mio padre decise che dovessi sapere che i ragazzi da me avrebbero voluto solo una cosa e che quella cosa era sbagliata.
A 16 anni il mio primo fidanzato, diciottenne, mi disse che prima di fare sesso con me doveva accertarsi che non fossi stata con nessuno prima di lui, che fossi vergine, perché dovevo essere pura per lui. Lui? Aveva già avuto molte esperienze, ma naturalmente per lui, un maschio, era diverso. Sei mesi dopo, alla fine della nostra relazione, mentre frequentavo un’altra persona, iniziò a farsi trovare sotto casa mia e a chiamarmi a qualsiasi ora del giorno e della notte, perché non avevo diritto di essere di nessun altro se non sua. Mi usò violenza fisica ed emotiva dal primo all’ultimo giorno ma non lo denunciai mai perché ero convinta che avesse ragione.
Dai 20 anni in poi iniziai a sentirmi dire che stavo ingrassando troppo, che mi stavo rovinando, che ero bella in faccia me che il mio corpo si stava sciupando.
A 23 anni mi recai dal mio medico di base per farmi prescrivere gli esami di controllo per le infezioni sessualmente trasmissibili, perché ero sessualmente attiva e dall’età di 21 anni avevo avuto diversi rapporti occasionali. Lei mi disse che quelli non erano “esami da fare alla cazzo” e che non me li avrebbe prescritti a meno che non avessi avuto qualche sintomo sospetto.
Alla vigilia dei miei 25 anni mia madre mi disse che lei, alla mia età, era già sposata e incinta, e io, invece, cosa stavo facendo?
Ancora adesso, a 27 anni, quando torno a casa, di notte, mi infilo le chiavi tra le nocche e mi guardo intorno per essere sicura di non essere seguita, facendo in modo di non fissare troppo gli uomini che incontro perché mi è stato insegnato che potrebbe sembrare “una provocazione”.
Nonostante tutto, però, sono tra le più fortunate. Sono una donna bianca, occidentale, cisgender, etero e normodotata. Quando passeggio mano nella mano col mio compagno non temo per la mia incolumità, quando mi presento a uno sconosciuto non ho paura che quella persona possa sbagliare il mio pronome, quando devo mostrare il mio documento d’identità non mi preoccupo di assicurare che quella persona sono proprio io, non mi sono mai preoccupata di informare la mia famiglia del fatto che sono etero. Non ho mai subito violenza di stato, non ho mai avuto bisogno di accedere a un servizio di assistenza sessuale, non sono mai stata discriminata per il mio orientamento sessuale, la mia presenza nelle piazze non è mai stata osteggiata da realtà autoproclamatesi femministe per la mia identità di genere o per il tipo di lavoro che facevo. Non ho subito la violenza colonialista sulla mia pelle, non sono dovuta fuggire dalla povertà o dalla guerra, non sono stata costretta a sposare un uomo da bambina, non mi sono mai trovata nella condizione di non poter lasciare la persona con cui stavo perché ne dipendevo economicamente.
Sebbene alcune di queste forme di violenza non mi abbiano coinvolta in maniera diretta, so benissimo che l’oppressione eteropatriarcale, capitalista e imperialista ci riguarda tutte e tutti. Mi hanno insegnato che le violenze e le discriminazioni che ho subito erano dei problemi personali, ma mai come adesso è il caso di ribadire che il personale è politico. Questa esperienza è collettiva e la lotta femminista appartiene a tutte e tutti. Spetta a quelle che chiamano “minoranze” guidare la resistenza contro il fascismo, il razzismo e il sessismo. L’unico muro da alzare, in questo momento, è quello contro chi vuole annullare ogni forma di dissenso, contro chi vuole appiattire le nostre identità e ridurci a un unico modello di esistenza, piegato alle logiche del consumo e del mercato. Come ci dimostra l’esperienza delle donne kurde in Rojava, i luoghi di resistenza e di autocoscienza sono indispensabili per contrastare la barbarie capitalista e patriarcale.
Io mi chiamo Chicca. Sono una militante di Art Lab, che è uno spazio occupato dichiaratamente antifascista, antirazzista e femminista in cui dal 2011 cerchiamo di costruire un’alternativa sociale e culturale alle modalità tradizionali e precarizzanti di cittadinanza.
Per tutti questi motivi il sostegno alla futura Casa delle Donne di Parma per noi è incontrovertibile e necessario. Allo stesso modo consideriamo di fondamentale importanza creare delle reti solidali e di lotta, sia a livello locale che globale, per contrastare tutte le forme di oppressione che siamo costrette a subire quotidianamente.