Non è bastato il plauso unanime per le parole della giornalista Rula Jebreal di poco meno di un mese fa, sul palco di Sanremo, per la sua condanna nei confronti di chiunque, ancora, voglia fare il processo alla vita delle vittime più che alle azioni degli autori di violenza. Sempre più spesso leggiamo parole e frasi che danno valore e spazio a chi, ancora, nei tribunali, fa diventare la vittima corresponsabile della violenza subita, mettendola sul banco degli imputati e creando ogni possibile attenuante per lo stupratore. Si chiama “vittimizzazione secondaria”, ed è quella che sono costrette a subire moltissime donne che trovano la forza di denunciare.
Una vittimizzazione che viene spesso raccontata sui giornali con narrazioni tossiche e distorte, con giudizi che aggiungono violenza alla violenza e che non tengono in alcuna considerazione la richiesta di silenzio e rispetto manifestata dalle donne che subiscono violenza. Ogni minimo particolare, ogni dettaglio privato viene sbattuto in prima pagina e amplificato per solleticare gli istinti pruriginosi e le esigenze voyeuristiche dei lettori, forse allo scopo di vendere qualche copia in più.
Questi i fatti. Il 22 febbraio 2020 la “Gazzetta di Parma”, il quotidiano della nostra città, ha pubblicato in cronaca un articolo di Roberto Longoni riferito all’udienza, avvenuta il giorno prima, del processo a Federico Pesci, un noto imprenditore cittadino accusato di aver provocato, il 21 luglio del 2018, gravi lesioni ad una ragazza poco più che ventenne durante un incontro sessuale che, all’inizio, era consensuale ma che successivamente si è trasformato in un crescendo di violenze inaudite. Violenze che sono costate alla ragazza quarantacinque giorni di prognosi. All’incontro partecipò anche lo spacciatore Wilson Ndu Aniyem che, per questa vicenda, è già stato condannato in primo grado – avendo scelto il rito abbreviato – a cinque anni e otto mesi di carcere per violenza sessuale di gruppo e lesioni aggravate.
Il processo è iniziato a maggio 2019 e il giornale della nostra città, già all’epoca, ne aveva raccontato i vari passaggi prestando molta attenzione a infarcire l’accaduto con dettagli irrispettosi e dando ampia voce agli avvocati della difesa, più interessati a trasferire il processo sul piano mediatico che a tenerlo nelle aule del tribunale (leggi). Fin da subito, cioè, le parole usate sono state quelle che conosciamo bene e che hanno spesso lo scopo di gettare fango sul passato e sul presente della vittima per creare un’attenuante allo stupratore.
La stessa cosa è avvenuta anche nell’articolo del 22 febbraio scorso (vedi R. Longoni, Processo Pesci. Difesa, testimoniano due psichiatri: «ragazza fragile», leggi), nel quale si è dato ampio spazio alle testimonianze di due psichiatri, chiamati dalla difesa, che hanno parlato della fragilità e della presunta “ipersessualità” della ragazza (ipersessualità, peraltro, percepita da uno degli psichiatri, a suo dire, attraverso il semplice tocco di un braccio!). A queste testimonianze – rilasciate sotto giuramento dagli specialisti e date in pasto alla stampa senza alcun rispetto della dignità della persona – si sommava poi nell’articolo un giudizio sottotraccia, ma chiaramente leggibile tra le righe, sulla dubbia non consensualità dell’atto e soprattutto sulla capacità di intendere e volere della vittima.
L’articolo ci ha turbate molto, al punto che, come Casa delle donne di Parma e col sostegno di molte altre donne e uomini, abbiamo lanciato una campagna di denuncia, prima attraverso un nostro comunicato stampa (leggi), e poi con un mailbombing alla “Gazzetta di Parma” (leggi). È stato il nostro modo di rimarcare che non siamo più disposte a tacere e ad accettare un’informazione sessista e irrispettosa della dignità delle donne che una violenza l’hanno già subita.
Il nostro gesto pare avere colpito nel segno: ad alcune delle centinaia di mail ricevute, il giornalista della “Gazzetta” ha risposto con un piccato copia e incolla (in cui non si è neppure premurato di cambiare il nome della destinataria) nel quale ci illustrava come si fa ad essere bravi giornalisti e cioè, letteralmente, a «riportare il più fedelmente possibile quanto avviene in un’aula di tribunale» (leggi). Ad alcune donne è stato risposto anche da altri collaboratori del giornale con toni piuttosto arroganti, definendo la nostra indignazione shitstorming e pregandole di rivolgersi altrove.
Ma non è tutto: il 27 febbraio è stato il direttore del giornale – Claudio Rinaldi – a scrivere un editoriale in prima pagina in cui, in modo paternalistico e piuttosto sprezzante, ha definito la nostra azione un «mini attacco», un «copia incolla» e una bomba che «proprio intelligente non è» (leggi). Inoltre, dopo averci con pazienza spiegato che «la regola aurea del giornalismo anglosassone» richiede di riportare le notizie con obiettività, è arrivato a paragonare le ormai usuali modalità del dibattito elettorale («quando si lamentano centrosinistra e centrodestra, ognuno convinto che sia stato concesso troppo spazio agli avversari») a una notizia di cronaca giudiziaria, che vede opporsi una donna che ha subito violenza (con 45 giorni di prognosi) e chi è accusato di averla violentata, ferita, seviziata. Un po’ incredule abbiamo letto e riletto ma è proprio così, la contrapposizione tra vittima e – sebbene ancora presunto – stupratore per il direttore sarebbe da porre sullo stesso piano della contrapposizione politica.
Ora, non ci stupisce la presa di posizione del direttore, tutto teso a difendere il giornalista autore dell’articolo del 22 febbraio, che viene qualificato come «chiaro», «molto equilibrato» e, con una strizzatina d’occhio d’intesa, di sicuro «uno dei migliori» tra i suoi. Al contrario, quasi ci compiaciamo che, grazie alla nostra iniziativa, il privilegio del potere, l’asimmetria di ruoli e di possibilità, si dispieghino in tutta la loro arroganza dalle prime pagine del giornale cittadino, davanti agli occhi di tutte e di tutti.
Uomini che difendono uomini, che indugiano sulla vita privata di una donna che ha già subito violenza e che – non smetteremo mai di ripeterlo – non si trova sul banco degli imputati. Lungi da noi «dare lezioni di giornalismo» ai maestri della “Gazzetta di Parma”, perché il punto non è questo, non è essere bravi a scrivere – o a vendere – articoli. La questione per noi va oltre e si sposta sul piano etico, sul senso di responsabilità che chi fa informazione dovrebbe sempre sentire sulle spalle, svolgendo il proprio mestiere non solo con onestà intellettuale ma anche con il rispetto dovuto alla dignità delle persone, al di là dell’appeal di una notizia più o meno pruriginosa.
Non diamo lezioni, ma nemmeno ne accettiamo da chi disprezza il dissenso di lettori e lettrici, da chi aveva la possibilità di scegliere le parole giuste per fare cronaca – e al contempo garantire il rispetto dovuto alla vittima – e invece ha preferito dar voce, ancora, a quel privilegio maschile che si perpetua – senza che nemmeno ce ne rendiamo conto – anche in una semplice pacca sulla spalla o dietro a un sardonico sorriso d’intesa con il carnefice.
La nostra azione – sebbene definita shitstorming dai professionisti della “Gazzetta” ‒ dimostra che molte persone – uomini e donne – non sono più disposte a digerire in silenzio articoli che sdoganano come “diritto di cronaca” una troppo ormai consueta vittimizzazione secondaria e che, dall’informazione, pretendiamo di più e meglio. Se violano il diritto alla dignità di una donna, violano quello di tutte.