del Gruppo salute e benessere della Casa delle donne di Parma
La tragedia di Anna, giovane puerpera crollata per sfinitezza sul suo bambino, probabilmente soffocandolo, è l’ultimo drammatico episodio di violenza subita da una donna.
Stremata da 17 ore di travaglio e dal parto, Anna si è trovata da sola ad accudire il suo bambino, senza che l’ospedale in cui era ricoverata ritenesse di prestarle cura e assistenza, peraltro da lei richieste. E’ prevalsa questa idea performante, decisa da rigidi protocolli ospedalieri, per cui una donna deve partorire con dolore, allattare al seno e occuparsi “da sola” del neo-nato a prescindere dalla possibilità di essere nelle condizioni psicofisiche per farlo.
Giustamente in questo caso si parla di violenza ostetrica, che la Carta dell’ONU annovera tra le tante forme di violenza alle donne, e che l’Osservatorio nazionale contro la violenza ostetrica denuncia, dando voce alle testimonianze delle tante donne, vittime di incuria, trascuratezza, durezza, impreparazione professionale in un momento così complesso della loro vita, come quello della maternità.
Tutta la retorica sul valore della maternità crolla, svelando il suo volto biecamente strumentale, davanti ad episodi come quello di Anna e di tantissime altre, che sono state trattate come oggetti, senza identità e senza storia, non riconosciute nel processo procreativo, che comporta trasformazioni psico-somatiche ed investimenti emotivi estremamente complessi, che richiederebbero accoglienza, cura, condivisione.
Parallelamente tutta la retorica sul valore della vita nascente, contro l’aborto, crolla davanti alla vita delle tante donne, che scelgono di interrompere una gravidanza, e che subiscono intollerabili forme di colpevolizzazione, che le fa sentire inadeguate e incapaci di scegliere, rese così altrettanto vittime di violenza.
Non è in discussione il personale delle strutture, sottodimensionato e costretto a turni e prestazioni insostenibili, bensì l’organizzazione dell’ospedale, di tutta la sanità pubblica, continuamente deprivata di risorse, con personale insufficiente, non in grado di far fronte ai bisogni della popolazione, che pure paga questo fondamentale servizio.
In discussione ci sono le tante forme di violenza che subiscono le donne e che passano anche attraverso il non riconoscimento del loro diritto ad una vita autonoma, indipendente, negato dalla mancanza di servizi pubblici, di tagli al welfare, di precarietà esistenziale e lavorativa.
Eppure è proprio dalle donne che viene la giusta indicazione: nella loro storia, soprattutto in quella delle meno agiate, il parto era un momento di condivisione, che le donne -congiunte, vicine di casa, di paese, amiche – vivevano insieme, come evento comune, che richiedeva cura, attenzione, solidarietà.
Uno spirito comunitario che l’individualismo sfrenato odierno nega, che ti lascia sola, che permea le pratiche assistenziali ed ospedaliere che nel caso del rooming-in preservano l’esclusività assoluta della madre nel nutrimento e nella cura dei figli. Madri alle quali non è concesso di delegare una parte della cura e della responsabilità in un momento così difficile e delicato che è la nascita di un figlio dentro a un sistema che considera come l’unica “responsabile” e qualcuna, nella solitudine, finisce per sentirsi incapace, colpevole e disperata.