Con la partecipazione di circa 3 mila persone (2500 secondo la Questura), moltissime donne, ma anche tanti uomini, di ogni generazione, un vivace e colorato corteo ha invaso le strade di Parma la sera dell’8 marzo, da piazzale Santa Croce a piazza Garibaldi. Tanti sono stati gli slogan e i sorrisi, in un clima di festa che vedeva alternarsi parole d’ordine radicali a musica e balli. Di seguito riportiamo gli interventi di apertura e chiusura della mobilitazione, il primo di Margherita Becchetti e il secondo di Elisabetta Salvini.
«Vorrei aprire questa nostra giornata – ha detto Margherita Becchetti – con due parole sull’8 marzo, Giornata internazionale della donna. Una data da anni deprivata dei suoi significati più autentici e ridotta ad appuntamento di grande appeal commerciale ed edonistico.
La stessa origine di questa festa che tutti noi crediamo di conoscere – l’incendio di una fabbrica a Chicago?, New York? Boston? In cui morirono 129?, 146? 19? operaie rinchiuse dalla proprietà per impedire che potessero partecipare ad uno sciopero – è una leggenda che corrisponde ad una visione precisa del mondo femminile e del suo ruolo nella storia: è il racconto di un capitalismo feroce ma remoto e di un mondo femminile da ricordare in quanto vittima, di cui ricordare il sacrificio, il martirio.
In realtà l’8 marzo non è questo, non è nato per questo. Nel 1910 a Copenaghen durante la seconda Conferenza internazionale delle donne socialiste – e dunque donne che si battevano con l’anima per ottenere diritti negati al mondo femminile, prima di tutto quelli politici ‒ Clara Zetkin lanciò l’idea di una giornata comune, in cui, in ogni paese, le donne potessero tentare di portare il tema dell’emancipazione femminile al centro dell’opinione pubblica.
Una giornata che, appunto, non aveva nulla a che fare col martirio o col sacrificio quanto, invece, con la rivendicazione di diritti e giustizia, voto e lavoro, libertà e autonomia.
Valori universali che non vanno attesi o difesi ma conquistati, oggi più che mai.
Questo 8 marzo, poi, è l’8 marzo di un anniversario importante, quello della legge Sacchi del 1919, un momento importante nella storia delle donne del nostro paese: la fine dell’autorizzazione maritale, la fine della norma che, di fatto, stabiliva e riconosceva ufficialmente l’inferiorità della donna rispetto all’uomo nel sistema giuridico del regno d’Italia. Secondo questa norma una donna non poteva disporre dei propri beni senza l’autorizzazione del marito, non poteva contrarre mutui, riscuotere capitali, nemmeno testimoniare in un tribunale.
La legge del 1919 abolì tutto questo e fece diventare anche le donne persone giuridiche ma quello che, in quegli anni dopo la grande guerra, sembrava un percorso avviato verso l’emancipazione, si dimostrò in Italia una via piena di ostacoli, di contraccolpi, di divieti e di dinieghi.
Il fascismo ha relegato le nostre nonne in casa a fare figli (macchine da riproduzione le chiamava Mussolini) e le nostre madri hanno dovuto lottare per liberarci da questi vincoli, per trasformare quelle gabbie che erano le famiglie in luoghi d’amore.
Ora questo governo vuole riportarci lì: Pillon, Fonana, la lega di Salvini vogliono riportarci a un modello di femminilità e di famiglia che nessuna di noi vuole più. Vogliono smantellare le conquiste di generazioni, come se la nostra coscienza, la nostra consapevolezza, il nostro cammino fossero silenziabili con qualche disegno di legge.
Da questa piazza devono dunque alzarsi molte parole, principalmente di critica verso questo governo che, con il ddl Pillon e altri disegni legge, minaccia di aggredire pesantemente la libertà femminile e di trasformare la famiglia in una gabbia per uomini, donne e figli. Minaccia di ristabilire un controllo pubblico sulle nostre vite, sulle nostre scelte e sulle nostre relazioni, un controllo che noi non possiamo più accettare.
Si devono alzare parole di condanna verso una società che, in molte sue componenti, continua ad essere intrisa di maschilismo e a muoversi secondo logiche patriarcali che vorremmo superate. Ma anche parole di invito a tutte le donne e a tutti gli uomini affinché la battaglia per la libertà di autodeterminazione di ognuno e ognuna di noi diventi anche una loro battaglia.
E allora per questo 8 marzo, e per i prossimi, diciamo niente mimose, niente spogliarelli o cene con amiche, niente festa mercificata; riprendiamoci la giornata che era e che fu, rimettiamo al suo centro temi irrinunciabili per molte di noi come l’autodeterminazione, l’antirazzismo, l’anticapitalismo, l’antiliberismo, il femminismo.
Facciamo di questa giornata un momento in cui, collettivamente, riconsiderare il ruolo che, questa società, riconosce o non riconosce alle donne e impegniamoci di conseguenza».
A chiudere il corteo, in piazza Garibaldi, è stata poi Elisabetta Salvini:
«Abbiamo detto e fatto tanto oggi, insieme. E ci sono parole che tornano e ritornano con insistenza, quasi con prepotenza: diritti; lotta alla violenza, al razzismo, all’omofobia e alla trans fobia; dignità; pari opportunità; autodeterminazione; libertà; conquiste. Ed è proprio da quest’ultima che vorrei partire: conquiste. La storia delle donne è fatta di conquiste, importantissime ed epocali, come ci ha ricordato Margherita all’inizio del corteo. Conquiste di cui però troppo spesso non abbiamo consapevolezza o che non sono considerate tali né tanto meno vengono raccontate come tali.
È di questi giorni la forte polemica su come i libri di testo ancora raccontino i ruoli di genere in modo stereotipato e fisso: tra una madre che lava, stira, cucina, e un padre che legge e lavora. Allora vi invito a riflettere sul fatto che tuttora su molti manuali di storia si legge che il voto alle donne del 1945 è stato di fatto un’estensione del suffragio o ancor peggio una concessione. Difficilmente – per non dire mai – compare la parola conquista con tutta la sua forza, per rivendicare e riaffermare un percorso di lotta femminile.
Le conquiste delle donne, non si sono tradotte unicamente in leggi di parità, ma in diritti di tutti e per tutti, conquiste di diritti fondamentali di cui noi oggi godiamo, senza nemmeno accorgercene, senza saperli valorizzare, senza conoscere le lotte e le battaglie che essi hanno comportato: il diritto di voto, il diritto alla maternità pagata, il diritto alla parità di trattamento sul lavoro, il diritto di famiglia, il diritto di divorzio, il diritto all’autodeterminazione, il diritto alle pari opportunità, il diritto ad interrompere la gravidanza e a scegliere sul proprio corpo.
Le lotte delle donne si sono tradotte in leggi e referendum popolari che hanno portato la parola equità nella nostra società, cambiando radicalmente equilibri e ruoli che la storia aveva fino a quel momento imposti come fissi, naturali, immutabili. Ma cosa succede ad una società se dimentica le proprie conquiste? Succede esattamente ciò che sta spaventosamente accadendo a noi, ora. Succede che i piani dei diritti, della dignità e delle libere scelte si confondono e si sovrappongono. Succede che è possibile confondere la proposta di un reddito per la maternità, con una ghiotta opportunità per lasciare un lavoro – magari precario e sottopagato – per tornare in casa a badare unicamente ai figli e alla famiglia. Senza considerare che se non esiste scelta non si può parlare di opportunità, ma di inevitabilità.
Succede che è possibile confondere la proposta di lavorare fino al nono mese di gravidanza come un’occasione in più, una libera scelta che viene “concessa” ancora una volta alle donne. Senza pensare che per avere quel nono mese di maternità pagata, le donne si sono battute a lungo perché per secoli hanno dovuto partorire nei campi e nelle fabbriche mettendo a rischio la vita propria e dei loro figli.
Succede che la proposta di riaprire le case chiuse possa sembrare una buona pratica per garantire alle donne controlli e regolarità, senza sapere quanto i bordelli fossero la forma più bieca e meschina di sfruttamento e di umiliazione femminile, tollerata e legittimata dallo Stato.
Senza una nostra consapevolezza, senza una nostra riflessione che scardini luoghi comuni e stereotipi di genere e sessisti – che sempre di più si stanno incarognendo tra le generazioni più giovani – i piani si confondono anche nel privato e nelle relazioni. Senza un’educazione alla sessualità, alla contraccezione, alla parità, si rischia che il controllo morboso e malato sia scambiato per normale gelosia o la bramosia di possesso in semplice desiderio. O ancora l’aborto in contraccezione. Senza una riflessione che scardini il binarismo tra i sessi, l’omofobia e la trans fobia, succede che le diversità possano essere vissute come una colpa, una vergogna, uno sbaglio e non come espressione del proprio essere.
Ecco perché l’otto marzo deve essere permanente. Otto marzo tutti i giorni. Perché – già mentre torniamo a casa – dobbiamo sentire il desiderio e la voglia di ricucire una riflessione tra donne e sulle donne, che ci riporti ad avere una piena consapevolezza di chi siamo e di chi vogliamo essere sulla base di ciò che siamo state e che non vogliamo più tornare ad essere.
Dobbiamo creare occasioni di incontro e confronto tra donne per trovare insieme pratiche condivise che smontino pezzo dopo pezzo questa politica che vuole toglierci dignità, diritti e libertà per ridisegnare una società diseguale e ingiusta, nella quale il ruolo della donna è relegato unicamente all’essere moglie e madre.
Dobbiamo ritrovare parole che possano creare un legame tra le generazioni e che ci permettano di aprire una riflessione anche con le più giovani, perché anche loro possano riconoscersi nell’otto marzo e possano sentirsi grate ed orgogliose di essere parte del movimento politico più forte, più potente, più colorato e più dirompente della storia. E perché insieme si possa continuare sulla strada delle conquiste che ancora dobbiamo realizzare, difendendo ciò che è già stato conquistato e che vorrebbero toglierci e ponendoci nuove sfide verso la parità e il contrasto alla violenza.
Ricucire relazioni e riflessioni, recuperare un linguaggio non neutro e nostro, capace di farci sentire parte di un cammino comune e condiviso. Perché da sole non siamo nulla ma insieme siamo una dirompente marea. Anna Maria Mozzoni 150 anni disse: “Non avrete mai altri diritti, all’infuori di quelli che avrete saputo conquistarvi. Non occuperete mai altro posto, all’infuori di quello che avrete saputo prendervi. Non godrete mai altra libertà, fuori che quella che saprete difendere ogni giorno e ogni momento”. Io vorrei ripartire da qui, insieme, consapevoli che solo la libertà delle donne libera tutti!».
Le fotografie della manifestazione sono di Lorenzo Melegari.