di Lorena Carrara – PhD Educazione e Scienze Umane, insegnante, saggista
Terminati gli scrutini in videoconferenza, questa mattina mi sono messa di buona lena a recuperare le pratiche messe in lista d’attesa durante la snervante fase della DaD (Didattica a distanza, per i non addetti ai lavori), tre mesi in cui – checché se ne dica – docenti di tutta Italia hanno dovuto sottoporsi, per deontologia più che per dovere contrattuale, a infinite sedute davanti ad uno schermo, rimbalzando da videolezioni, videochiamate, registri elettronici e webinar a telefonate con colleghi e con studenti, compilazione di moduli e correzioni di un migliaio di documenti, nelle più svariate modalità e formati disponibili in digitale.
Mi si profilava una mattinata perfino rilassante: mettermi al PC (ovvio) per seguire un corso on line sulla sicurezza – ora più che mai imprescindibile per i lavoratori e le lavoratrici della scuola – ma alleggerita dal non dover gestire in contemporanea due figli in Dad, i compiti o i messaggi dei miei bambini e bambine e/o la progettazione dell’ennesima videolezione asincrona.
Come forse avrete ormai intuito, insegno in una scuola primaria. Il mio ambiente di lavoro – come quello di qualunque altr* insegnante in Italia e non solo – è fortemente femminilizzato[1], in accezione sia positiva (le donne parrebbero possedere intelligenza emotiva e capacità empatiche superiori agli uomini), sia negativa (la professione docente è stata progressivamente svilita e sminuita in termini economici e sociali). La scuola ha per definizione una struttura collegiale e democratica, ma al suo interno ci sono importanti ruoli e funzioni che, per ovvie ragioni matematiche, risultano ricoperti per lo più da donne. I colleghi? In gran parte donne. Poi un mondo di figure professionalmente legate alla scuola: educatrici, psicologhe, segretarie, addette alla refezione e ai servizi educativi nel Comune… Parlo di loro usando con naturalezza il femminile, perché si tratta prevalentemente di donne. Ho perfino una Dirigente Scolastica.
Devo aggiungere con grande rammarico che la piattaforma del corso che mi accingevo a seguire è gestita dall’università in cui mi sono laureata e addottorata, un ambiente anch’esso fortemente femminilizzato, dove donne di ogni età, colore e cultura pullulano, felicemente insegnando, accrescendo, arricchendo, studiando ciò che più amano: il complesso e affascinante mondo dell’educazione e della formazione umana.
Dunque? Vi chiederete voi. Dunque, il succo è questo: mi siedo, mi metto le cuffie, preparo il quaderno per gli appunti, comincio a seguire il corso … ed ecco. La mia fragile serenità ai tempi del Corona viene di nuovo dissipata nel breve volgere di una mezz’ora. Giunta alla terza U.D. (Unità Didattica) – quella in cui si presentano le figure che all’interno del luogo di lavoro si occupano della sicurezza e della prevenzione – mi si para davanti agli occhi, chiusa nel mondo virtuale dello schermo (ma pure troppo connessa all’immaginario di chi ha curato la grafica, di chi ha scritto i testi, di chi ha approvato questo corso e di chi ne fruirà) una realtà che non esiste. Un mondo dove le donne praticamente non vivono, non lavorano, non possiedono saperi, non sono responsabili di niente, competenti in niente. Un messaggio formativo indirizzato alla scuola – peggio, ai formatori e alle formatrici – dove però la dimensione femminile è drammaticamente assente.
Il tutto ha un non so che di paradossale. Inizialmente rimango basita. La struttura dell’azienda, della scuola, della facoltà (a quanto pare da un punto di vista normativo i diversi ambiti sono del tutto sovrapponibili) e della società stessa, viene rappresentata icasticamente come una piramide di stampo massonico, dominata al vertice da un losco individuo (modello “servizi segreti”) che intuisco mi stia fissando da dietro le lenti a specchio di un paio di occhiali anni ottanta, mentre sfodera un ghigno impenetrabile. Sotto di lui, gerarchicamente e simbolicamente parlando, si muovono gli altri. Al primo livello che si incontra, scendendo, si trova una donna su tre individui rappresentati, al secondo una su sei, al terzo (il più basso) tre su nove. Per un totale di cinque su diciannove. La pelle dei personaggi è candida e luminosa come la luna piena che si staglia sullo sfondo. Ma in questa microsocietà – piccola davvero – c’è un altro aspetto da considerare: le cinque donne raffigurano due sole professioni papabili per il genere femminile: la bionda, avvenente hostess e la simpatica cuoca moretta della mensa. Nessun’altra prospettiva pervenuta. Per i maschi, sebbene nei ristretti spazi di questo micromondo – ideale? idealizzato? esemplificativo? – il ventaglio delle possibilità appare un po’ più ampio. Fatta eccezione per l’unico, uno, incontestabile e inarrivabile datore di lavoro – incravattato e immobile all’acme della piramide sociale – compaiono anche dei controllori (o portalettere), dei colletti bianchi, degli operai specializzati e addirittura, al vertice opposto rispetto al datore, un umile contadino riconoscibile per il forcone e il cappello di paglia (valida alternativa per gli uomini che amano il contatto con la natura).
Ma, seriamente? Mi viene da dire… Seriamente sono obbligata a sorbirmi questo? Vado avanti e… sì, la situazione è davvero seria. Perché dopo avermi fatto comprendere, a fatica, quanto sia complesso e difficile il mondo in cui viviamo, è importante che mi venga illustrato in che modo sono assegnate le responsabilità. Oh, finalmente, era ora. Vediamo un po’. Per prima cosa bisogna distinguere: in realtà aziendali di grandi dimensioni, la struttura è complessa e articolata, ma anche un idiota riuscirebbe a capire che a capo c’è lui, il nostro abbagliante, incomparabile e irripetibile datore di lavoro. Nelle realtà più piccole, invece, bisognerà accontentarsi di un lui più comune, una mezza via tra il capo e l’impiegato, uno senza pretese. Non si può avere tutto in questo micromondo, gente.
Proseguiamo con la lezione e arriviamo al sodo. Il decreto legislativo 81/08 individua alcune figure indispensabili alla sicurezza e il cartone animato me le elenca con dovizia. Lo schermo risulta opportunamente diviso in senso longitudinale e intanto che lungo un nastro inferiore scorrono anonime e indistinte le solite figurine umane monocrome, al piano superiore si ergono fieri, fermi ed affidabili i responsabili della sicurezza: il datore di lavoro (corrucciato come sempre, forse per l’aggravio delle incombenze di cui si deve far carico per la mia e nostra salvaguardia), poi il dirigente, il preposto, l’addetto al servizio antincendio, l’addetto al servizio di evacuazione e antitrust, il medico competente o, in sua assenza, l’incaricato del servizio di primo soccorso (l’unico che può permettersi di posare le mani sull’inviolabile datore) e infine il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (per cui viene sottolineata la retribuzione accessoria). Nominato direttamente dal datore di lavoro, c’è poi il responsabile del servizio di prevenzione e protezione, abbigliato e connotato in modo esplicitamente militaresco… una scelta narrativa assai curiosa, dopo che all’inizio è stata chiarita la differenza tra le leggi degli anni ’50 (fondate su un asimmetrico sistema di controllo/sanzione) e le leggi oggi vigenti, fondate invece sulla corresponsabilità di tutti i lavoratori (le lavoratrici non vengono mai nominate, probabilmente nel micromondo della formazione professionale non hanno doveri di responsabilità o addirittura non esistono). Perfino la cura, area tradizionalmente e storicamente assegnata alle donne, in questo filmato viene attribuita al lavoratore. Sul lavoro, lì sì, gli uomini sono più predisposti alla tutela e all’accudimento di quanto non sia il genere femminile. Del resto, chi meglio di loro potrebbe comprendere le esigenze e i bisogni dei colleghi, farsene portavoce e custode e, al contempo, con senso di responsabilità e solida competenza, rispettare le leggi?
Al datore di lavoro spetta la responsabilità dell’impresa. Compito impegnativo, e assai ingrato, che viene rappresentato con l’indice teso in segno di comando verso i sottoposti (capisco che lo sono dalla generosa elargizione di banconote prelevate a mo’ di mancetta da un sacco), il tutto condito da un sardonico sorriso paternalista… ormai lo conosciamo. Poiché il datore di lavoro coincide nella maggior parte dei casi con l’organo di vertice, nelle università esso è incarnato – ça va sans dire – con il Magnifico Rettore. Di conseguenza, gli studenti sono equiparati ai lavoratori nel momento in cui all’università studiano e/o intraprendono percorsi per prepararsi a una professione (non risulta contemplata la possibilità di studiare per inutile amor di cultura).
È tutto coerente e limpido, nel rassicurante micromondo. Si ha l’impressione che all’università vadano solo i maschi, ma del resto è importante che imparino a svolgere ruoli di responsabilità e di collegamento tra la base della piramide e il datore di lavoro, sennò quest’ultimo a chi dovrebbe rivolgersi qualora si trovasse nella necessità di delegare alcuni dei suoi pesanti carichi o delle sue altrettanto gravose responsabilità? Mediante chi dovrebbe egli comunicare coi suoi sottoposti? Come altrimenti si potrebbero raccogliere le segnalazioni dal basso per riportarle con cognizione di causa al vertice della piramide? Lo schema è perfetto. È necessario saper incaricare e scegliere le persone giuste, di solito in abiti maschili.
Ho imparato molto grazie a questo corso. Innanzitutto, che la sicurezza mia e delle mie colleghe dipende dal coinvolgimento di quei pochi maschi che riusciremo a racimolare… e siamo anche fortunate, nel nostro Istituto qualcuno ce n’è. Secondariamente, che a noi non compete alcuna responsabilità, forse non saremmo nemmeno in grado di assumercele in toto… può darsi che addirittura non siamo dei veri lavoratori. Qualcuno ci avrebbe dovuto avvisare per tempo! Ma di che ci stupiamo? Lo sanno tutti che le donne scelgono l’insegnamento per aver più tempo da dedicare al marito e ai figli. Ne deriva che la mansione che ci compete, in particolare a scuola, è legata alla nostra spontanea e innata vocazione alla cura dei piccoli d’uomo, non a una professionalità che ci siamo costruite con percorsi specialistici, formativi e/o universitari. Mica lo pensavate, vero?
Al terzo punto c’è una questione personale, che mi sta particolarmente a cuore: chi dirà alla mia valida ed elegante collega Responsabile della Sicurezza che d’ora in poi dovrà presentarsi a scuola indossando la mimetica?
[1] A titolo di esempio, vedi: https://www.oecd-ilibrary.org/education/gender-imbalances-in-the-teaching-profession_54f0ef95-en ; http://www.tuttoscuola.com/troppe-donne-nella-scuola-lo-squilibrio-di-genere-puo-essere-un-problema/