Apprendiamo che la Ministra alle pari opportunità e alla famiglia, Elena Bonetti, intende istituire una task-force, dall’altisonante nome Donne per un nuovo Rinascimento, e formata da donne che si sono distinte in vari settori ‒ lavorativi, culturali, scientifici ‒ avente come obiettivo quello di avanzare “proposte ed idee per aumentare la percentuale di donne in tutti gli ambiti lavorativi, per superare le barriere all’avanzamento nei percorsi di carriera, in particolare nei campi in più rapida crescita (STEM, informatica, cloud computing, dati e intelligenza artificiale), contro gli stereotipi sul genere che impediscono alle donne di raggiungere le posizioni di leadership, per costruire un futuro sostenibile più inclusivo per tutti”. Dal testo del decreto-legge francamente ci saremmo aspettate qualcosa di più e di diverso.
Innanzitutto crediamo che, prima di pensare all’aumento in percentuale di donne in tutti gli ambiti lavorativi – obiettivo assolutamente condivisibile ed auspicabile – sia necessario porre le condizioni affinché nessuna donna sia costretta a dover rinunciare al lavoro che già ha. Diciamo questo perché, come in parte accennato nel decreto “le donne con figli in età prescolare – ma, aggiungiamo noi, anche quelle con figli in età scolare, finché la scuola resterà chiusa ‒ potrebbero essere le più colpite dalla crisi rispetto a quelle senza, a causa della più fragile condizione in cui versano”.
Riteniamo che il decreto debba affrontare questo tema per non rischiare, come sempre è accaduto nelle emergenze, di trasformare le donne nella sola possibile risposta all’assenza di welfare e servizi che, al momento, non si è in grado di poter garantire.
Nel decreto sono resi invisibili l’estensione e la necessità del lavoro fatto dalle donne, in particolare il lavoro di cura non retribuito. In questi giorni sono molti i collettivi femministi che lo stanno dicendo: “E ora lo vedete il lavoro delle donne?”. Non viene fatto nessun cenno nemmeno al lavoro precario in generale, che solitamente e a livello globale è svolto dalla maggioranza delle donne.
Nemmeno una parola, nel decreto, è dedicata al grande problema della divisione sessuale del lavoro (quella tra lavoro produttivo e lavoro riproduttivo e di cura, per intenderci), così come invisibile è l’impatto di genere della crisi, in particolare rispetto alla violenza e alle ingiustizie che le donne devono affrontare. Anche il confinamento è profondamente disuguale, per classe sociale, per genere, per gruppo etnico di appartenenza
Il testo si muove ancora una volta in una logica androcentrica. Il problema posto è che le donne devono poter raggiungere una posizione di leadership, che sarebbe ostacolata dal persistere di pregiudizi di genere. Si tratta di una logica che continua a intendere i rapporti economici sempre e solo in un’ottica di mercato, di competizione, di potere, propri di una visione patriarcale capitalista, mentre da alcuni anni il movimento femminista mette in discussione proprio i modi di produrre e di consumare che appartengono al sistema di dominio patriarcale, a cui dovremmo contrapporre la centralità dei processi che sostengono la vita, anziché i mercati.
Le disparità sociali sono destinate ad allargarsi, per effetto della crisi che alimenterà la perdita dei posti di lavoro, l’aumento della precarizzazione, di situazioni irregolari, di compensi miseri.
Il prezzo più alto sarà pagato dalle donne, non perché non riusciranno a raggiungere posizioni apicali, ma perché nuovi programmi di austerità, ulteriori processi di privatizzazione, nuove misure antisociali, la chiusura di attività in molti settori e l’assenza di adeguate politiche di conciliazione, ancora una volta, colpiranno specificamente le donne e le cacceranno fuori dalla produzione, ad attendere ad un lavoro di cura sempre più impegnativo e sempre meno riconosciuto.
Noi crediamo che la task-force istituita da una istituzione pubblica dovrebbe occuparsi di tutti questi problemi. E per farlo dovrebbe naturalmente ridefinirne la composizione, al fine di avvalersi della partecipazione e del contributo delle donne che vivono sulla loro pelle la realtà delle varie forme di discriminazione e di violenza.