Immgine tratta dal-fumetto “Da che mondo è mondo” di Rita Petruccioli
Di violenza ostetrica e stereotipi sulla maternità
La notizia della morte del neonato all’ospedale “Sandro Pertini” di Roma (probabilmente soffocato dal corpo della madre, esausta e stanca dopo aver affrontato travaglio e parto e dopo aver più volte chiesto un aiuto nella gestione del neonato) ha aperto un vaso di pandora. Molte donne si sono sentite di dover in qualche modo condividere il proprio dolore comunicando prima di tutto a quella madre che la sua tragedia sarebbe potuta accadere a tutte, perché una gran parte delle donne che ha partorito negli ultimi anni ha fatto esperienza di quella che oggi prende il nome di violenza ostetrica.
In molte hanno raccontato dei loro dolorosi parti, dolorosi non tanto per le sofferenze fisiche affrontate, ma per le situazioni violente e pesanti che hanno dovuto subire: dai commenti e i facili giudizi del personale sanitario (“Hanno partorito tutte, tu non ci riesci?”, “Non urlare che disturbi il reparto”) fino a procedure mediche imposte e spesso non segnalate nella cartella clinica.
Oltre a queste forme di violenza che avvengono durante il travaglio e il parto la situazione non migliora nel post-partum, ovvero in quei giorni in cui la madre è ricoverata in reparto. Giorni che dovrebbero servire a riprendersi dal parto, a iniziare a costruire la relazione con il/a neonato/a, a sperimentare l’allattamento insieme a ostetriche che dovrebbero rispettare i tempi del/la figlio/a e della madre, a preparare il ritorno a casa con la sicurezza della salute di entrambi. Invece quei giorni per molte sono i giorni più difficili in cui ci si scontra contro tutte quelle aspettative che il ruolo di madre ha nella nostra società: una donna che naturalmente sa gestire un neonato, sa capirlo, sa allattarlo; una donna che come una wonder woman sa riprendersi dal parto, da perdite di sangue e tagli, da dolori e cicatrici, in pochi minuti ed è pronta e scattante per buttarsi anima e corpo nella cura di un’altra vita; una donna che deve “stare sul pezzo”.
La realtà del post- partum e le tante testimonianze ci dicono invece che in quei giorni le donne sono fragili, deboli, stanche fisicamente dal parto e dai dolori, scosse emotivamente dalle nuove responsabilità che si sono fatte carne e pianto, provate dai cambiamenti ormonali, da un corpo che si sta modificando e che spesso non si controlla. E in quella solitudine, senza nemmeno una persona che ci conosce al nostro fianco se non per poche ore, ci si perde, seppellite da tutte quelle aspettative sulla maternità.
Tutto ricade inevitabilmente sulle spalle della madre. In questa prospettiva non c’è altra figura genitoriale.
Il covid, poi, ha peggiorato la situazione dei reparti di maternità lasciando sole le donne, allontanando i padri e le famiglie, chiudendo quei luoghi e lasciando spesso all’interno di quelle stanze tante storie di violenza.
Nella nostra città, Parma, alcuni giorni prima della notizia della tragedia del Pertini, ormai un mese fa, i quotidiani cittadini hanno annunciato un cambiamento nelle modalità di visite per le donne che partoriscono all’Ospedale Maggiore. Dopo tante sollecitazioni da parte di futuri genitori e associazioni, dal gennaio 2023 i papà potranno entrare in stanza 5 ore al giorno: 2 al mattino, 2 a pranzo, 1 alla sera. A Vaio (Fidenza) invece le ore saranno 3: 1 al mattino, 1 a pranzo e 1 a sera. Nell’ospedale fidentino è rimasta in vigore la regola per cui il padre (o la persona scelta dalla partoriente) potrà starle accanto solo dal travaglio attivo e non prima, cioè nelle tante ore, a volte giorni, in cui ci si avvicina al parto.
In molti/e hanno accolto queste novità con entusiasmo, definendole una strada verso una genitorialità più condivisa. Ne siamo sicurɜ? Davvero 3 o 5 ore su 24 ci sembrano una buona conquista? Dare per scontato che nei primi giorni di vita a occuparsi principalmente del neonato sia naturalmente la madre è un passo in avanti? Lasciare sola la partoriente con le paure e i dolori, le insicurezze e i timori nella parte preparatoria al travaglio attivo e poi al parto è una prassi che vogliamo continuare?
A noi tutto questo annunciare e squillar di trombe sembra uno specchietto per le allodole, e se ci prendessimo il tempo per riflettere capiremmo che la tutela della maternità e la genitorialità condivisa sono tutta un’altra cosa.
La vicenda del Pertini e le tante storie emerse nei giorni a seguire ci dimostrano che la strada intrapresa dalle strutture sanitarie del nostro territorio non basta, non è sufficiente. Le testimonianze rilasciate da molte donne ci danno la prova che le violenze ostetriche e le difficoltà legate alle aspettative e alla solitudine della maternità sono molto più presenti di quanto potevamo immaginare.
E allora, che questa presa di parola non sia solo un fuoco di paglia ma che stimoli una riflessione politica e femminista sulle dinamiche che, nelle strutture sanitarie, coinvolgono i corpi delle donne (non solo nel momento nascita) e sui ruoli genitoriali ancora così stereotipati.
Casa delle donne di Parma